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Dichiarazione del Movimento federalista europeo dopo la riunione del Consiglio europeo di ieri, culminata con la “non-decisione” in merito al tema cruciale del supporto finanziario agli Stati di demandare all’Eurogruppo l’elaborazione di una proposta.

 

L’EUROPA ALLA PROVA DELLA GUERRA CONTRO IL CORONAVIRUS

Nell’ora più buia l'Europa si può salvare solo
recuperando lo spirito dei Padri fondatori

 

La crisi in corso, generata dalla più grave pandemia che il mondo ricordi dagli inizi del XX secolo, mette alla prova l’Unione europea in modo inaspettato. Il mondo intero ne uscirà stravolto e ogni comunità politica dovrà dimostrare di avere le risorse morali e materiali per ripartire. Sappiamo che la sfida colpirà direttamente il cuore delle nostre democrazie e l’idea stessa di costruire una nuova solidarietà globale.

Come all’indomani della Seconda guerra mondiale, le risposte della politica dovranno essere proporzionali ai pericoli che minacciano i nostri valori, il nostro modello di società libera, democratica, solidale, il nostro stesso futuro. Nessuno Stato da solo in Europa riuscirà a vincere questa sfida. Ciascuno dovrà fare la propria parte, ma è solo uniti che potremo salvare la nostra civiltà.

La distanza tra la realtà dell’Unione europea di oggi e questa comunità di destino coesa di cui avremmo assolutamente bisogno è sotto gli occhi tutti. Gli egoismi nazionali restano dominanti; anche se la crisi si abbatte con forza su tutti i Paesi, e dovrebbe pertanto spingere verso la ricerca di risposte comuni, le vecchie contrapposizioni, in particolare tra il blocco dei Paesi del Nord e quello dei Paesi del Sud, rimangono profonde, perché vince l’egoismo.

La riunione del Consiglio europeo di ieri, culminata – dopo aver suscitato alcune reazioni contrariate anche forti, come quella espressa dal presidente del Consiglio italiano – con la “non-decisione” (in merito al tema cruciale del supporto finanziario agli Stati) di demandare all’Eurogruppo l’elaborazione di una proposta, ha fornito l’ennesimo esempio in tal senso.

Neanche in questo caso molti governi sono riusciti a staccarsi dall’ottica miope dei propri interessi a brevissimo termine; e questo nonostante le altre istituzioni europee abbiano ormai capito l’esigenza di una reazione comune e coesa. La BCE, la Commissione europea e lo stesso Parlamento europeo, hanno messo in campo interventi straordinari in queste ultime due settimane, con la volontà di usare tutto lo spazio di azione concesso loro dai Trattati. Il nodo evidente del malfunzionamento dell’UE risiede pertanto, chiaramente, nel monopolio delle decisioni da parte degli Stati membri, simboleggiato nello strapotere del Consiglio europeo e nella sua incapacità di trovare accordi per far funzionare l’Unione europea.

In tutto questo, da un lato è difficile capire a questo punto che strada possa imboccare l’Unione per mettere in campo risorse sufficienti a sostenere davvero le economie e le politiche sociali dei Paesi membri. Tutte le ipotesi che si fanno o sono insufficienti, o presentano controindicazioni per gli uni o per gli altri; ma soprattutto è difficile capire come uscire da questo vicolo cieco dovuto al fatto che la solidarietà avviene esclusivamente tra Stati, perché l’Unione europea non ha la competenza fiscale che permetterebbe un passaggio ad una solidarietà tra cittadini europei. Dall’altro lato, uno dei fatti da evidenziare con forza è che se gli Europei hanno urgenza di diventare una comunità di destino unita e coesa, la soluzione non si troverà nello scontro tra tipologie di interessi nazionali contrapposti, ma solo spostandosi sul terreno qualitativamente diverso dell’interesse comune.

La lettera dei nove Capi di Stato e di governo inviata il 25 marzo al presidente del Consiglio europeo, Charles Michel (lui pure, va detto, impegnato a cercare di portare i governi a ragionare maggiormente in termini di interesse comune), contiene, ad esempio, molti punti giusti, inclusa la questione di “lavorare ad uno strumento di debito comune emesso da un’istituzione europea per raccogliere fondi sul mercato sulla stessa base e a beneficio di tutti gli Stati membri”. Si tratta di una proposta sicuramente necessaria, a maggior ragione in questa fase di emergenza. Al tempo stesso, nelle condizioni attuali, questa istituzione europea che nella proposta dei nove governi dovrebbe emettere debito (e quindi garantirlo) non potrà non poggiare a sua volta su un fondo alimentato dai contributi degli Stati. In questo modo è difficile uscire dal circolo vizioso.

Un debito europeo, per non diventare un tema divisivo, non dovrebbe rientrare nell’ambito della semplice solidarietà tra Stati (che fa sentire i Paesi più solidi autorizzati a parlare di condizionalità nei confronti di quelli il cui debito è più esposto) ma dovrebbe fondarsi sulla garanzia europea di un bilancio federale. Per questo la forza della proposta di lavorare ad uno strumento di debito comune sarebbe infinitamente superiore se si accompagnasse a quella di rilanciare l’unione politica federale. In questo modo sposterebbe il terreno del confronto dall’attuale scontro tra interessi divergenti alla visione del futuro dell’Europa.

Molti ritengono che porre in questa fase di emergenza il problema del rilancio dell’unione politica sia irrealistico; ma se il rischio mortale che corre oggi l’Unione europea è quello di trascinarsi durante la crisi per poi ritrovarsi sempre più lacerata, e di distruggere così il patrimonio di 70 anni di integrazione, è davvero impensabile porre in modo concreto, in questo momento, il problema di fare passi reali in direzione federale? E’ un fatto che per salvare l’Unione europea non esistono alternative rispetto ad invertire la logica imperante che spinge ciascuno a cercare il proprio vantaggio a scapito dell’interesse comune.

Settant’anni fa, con questo spirito, Jean Monnet ha concepito la nascita della Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio. Il parallelismo con la situazione di oggi è molto evidente. L’esperienza della CECA ci insegna infatti che la soluzione della crisi acuta può essere trovata solo in un progetto dalla forte valenza politica che sia in grado di capovolgere il rapporto tra Stati membri e Unione, rendendo quest’ultima autonoma e capace di agire nella sua sfera di competenza.

Oggi, come dimostrano l’impasse nei negoziati sul bilancio dell’Unione e sulla possibilità di uno strumento di debito comune, il problema che non può più essere rimandato è quello di attribuire all’Unione la competenza fiscale – anche limitata inizialmente a poche risorse – affidandola alle istituzioni politiche dell’Unione. Un’ipotesi è quella di legare le risorse a “beni pubblici europei”, come l’ambiente; inizialmente potrebbero quindi consistere in imposte quali la border carbon tax, nella prospettiva dell’attribuzione di nuove risorse in futuro. In ogni caso questo passaggio creerebbe la base di un potere di governo autonomo a livello europeo, che spezzerebbe l’attuale logica politica che concentra il potere nelle mani del Consiglio europeo e che potrebbe evolvere ulteriormente nei limiti stabiliti dal controllo democratico cui la Commissione europea sarebbe sottoposta.

È una soluzione che ovviamente non può fondarsi sui trattati esistenti, che non attribuiscono capacità fiscale all’Unione, e che implicherebbe quindi una modifica dei trattati. È inutile pertanto nascondersi che si tratta di un passaggio difficile, anche perché implica un’attribuzione sostanziale di sovranità al livello europeo. Ma in questo momento drammatico, che costringe ad aperture prima impensabili, il Parlamento europeo e gli Stati che invocano un’Europa più solidale e più capace di agire avrebbero tutte le possibilità di ingaggiare questa battaglia e di vincerla. Sarebbe anche il solo modo di salvaguardare e rilanciare la prospettiva dello svolgimento della Conferenza sul futuro dell’Europa, che rimane un appuntamento indispensabile e che altrimenti sarebbe destinata ad essere travolta dalla crisi.  

Come ha ricordato Ursula von der Leyen ieri davanti al Parlamento europeo, sfidando il Consiglio europeo: dobbiamo concentrarci al più presto su “come possiamo usare questa tempesta per assicurarci che potremo resistere meglio alla prossima”. “La storia ci guarda”, ha concluso: “facciamo la cosa giusta insieme: con un cuore grande, non con 27 cuori piccoli”.


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