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3. La sfida del governo della globalizzazione

Se l’iperglobalismo americano ha rivelato il suo volto negativo, il mondo sperimenta oggi il suo drammatico

– e ben più devastante – opposto, il nazionalismo esacerbato e confuso della potenza in crisi, ma ancora forte abbastanza da avere in mano le leve del mondo. Il non-disegno di Trump è folle, e, oltre l’euforia dei mercati che approfittano delle droghe temporanee, spinge gli stessi USA in un cul de sac, politico prima ancora che economico. Oggi ci troviamo alla vigilia di una nuova recessione mondiale, che potrebbe portare con sé una devastante guerra monetaria, e non sappiamo cosa ne potrà scaturire. Assistiamo impotenti alla guerra dei dazi iniziata dall’Amministrazione americana – con il doppio focus sulla bilancia commerciale e sulla competizione tecnologica –, che rischia di dividere il mondo in due emisferi non-comunicanti, mette in crisi l’economia dell’Eurozona, minaccia la stabilità dell’Occidente, ma che non fermerà la Cina. Sinora, il risultato ottenuto è un peggioramento ulteriore della bilancia commerciale americana, con un incremento delle esportazioni cinesi negli USA, a fronte di un calo di quelle statunitensi verso la Cina. Le catene globali del valore sono talmente intrecciate, che non si può colpire “l’avversario” senza colpire parte della propria industria; e tutto sembra far credere che soffre di più l’Occidente del rallentamento cinese, di quanto non ne soffra la Cina stessa.

In questo quadro, riesumare, come fa Trump, i toni e la mentalità da nuova guerra fredda contro un avversario che (tutti i dati confermano) è destinato ad occupare il posto di prima potenza mondiale nel giro di due-tre decenni, e quindi senza nessuna chance di vincere, per di più in assenza di un progetto di lungo respiro da coltivare e con cui crescere, è un boomerang per gli USA, come lo è per ogni potenza globale in declino non capire come ritagliarsi un nuovo e diverso ruolo di prestigio nel mondo che si va profilando; la gestione del passaggio di potere dalla Repubblica delle Province Unite dei Paesi Bassi all’Inghilterra e da quest’ultima agli Stati Uniti dovrebbero insegnare. L’unica scusante, anche in questo caso, è la solitudine americana, per l’assenza di un partner europeo con cui fare fronte comune in nome dei valori democratici, sociali e liberali condivisi. Questo è stato il tentativo di Obama nel perseguire gli accordi commerciali (in particolare con il TTIP con l’Unione europea) con cui cercava di costruire un blocco coeso e dotato del peso necessario per imporre alla Cina standard che non penalizzassero le industrie occidentali, ma piuttosto impedissero il suo dumping. La Commissione europea, come ci ha testimoniato anche il caponegoziatore per l’UE, Ignacio Garcia Bercero, quando è intervenuto nei lavori della Commissione politica del Comitato federale dell’UEF che stava affrontando il tema, era consapevole della posta in gioco, ma era anche fortemente frenata dal fatto che l’accordo avrebbe avuto bisogno dell’approvazione unanime di tutti gli Stati membri dell’UE; la competenza esclusiva della Commissione in materia di politica commerciale, e quindi la possibilità della ratifica a maggioranza, terminano infatti quando gli accordi toccano gli interessi nazionali degli Stati, cosa che ormai succede sempre con i nuovi trattati che includono i servizi e altri settori chiave delle economie dei singoli paesi. Questo scoglio non determina solo rallentamenti e rischi di fallimento al termine dei lunghi e complessissimi negoziati (chi non ricorda la vicenda della mancata firma del Parlamento vallone per poter avviare l’iter di ratifica del CETA, o non ha presente le recenti minacce del governo Lega- Movimento 5 Stelle a proposito della ratifica di questo trattato?); esso distorce innanzitutto l’ottica con cui si prendono in considerazione gli stessi negoziati e i trattati che ne derivano. Al di là della chiusura dei negoziati sul TTIP imposti da Trump, quanti nei parlamenti nazionali erano consapevoli della partita che si stava cercando di giocare e si ponevano l’obiettivo di contribuire al suo successo, anche solo creando un clima positivo e lavorando per migliorarne le criticità, ovviamente presenti?

L’Unione europea oggi è la prima potenza commerciale nel mondo; il suo Mercato interno rappresenta un’innovazione politica di enorme successo, che è anche è la maggiore garanzia che in questo momento gli Europei hanno di poter mitigare gli effetti di un possibile ritorno al protezionismo. Eppure, il suo modello che preserva il tabù delle sovranità nazionali è carente persino in una materia di competenza comunitaria da decenni. Anche in questo campo l’Unione europea non ha strumenti sufficienti per mettersi al servizio di un progetto politico tout-court, dotato dell’ambizione di condizionare gli equilibri mondiali e incidere sul governo della globalizzazione. Come ricorda spesso Martin Sandbu nelle sue analisi sul Financial Times, l’UE continua a fondarsi sulla mentalità mercantilistica in base alla quale i suoi Stati membri danno un mandato alla Commissione limitato a perseguire vantaggi immediati – in termini di occupazione, o di possibile crescita di determinati settori grazie all’apertura di spazi commerciali – senza progetti di lungo respiro, e senza volontà di giocare un ruolo politico.

Anche per sfruttare quindi in modo diverso (ed effettivo) il suo soft power, che già avrebbe nel campo del commercio, l’Unione europea ha dunque bisogno di compiere una duplice rivoluzione: porsi l’obiettivo di diventare una potenza economica globale (nel solco della già menzionata consapevolezza di “dover prendere in mano il proprio destino”), e riformare in senso federale il proprio sistema istituzionale per poter andare oltre la difesa di 28, o 27, interessi nazionali, e definire – e difendere – un interesse europeo, togliendo agli Stati il monopolio politico.

Nessuno si illuda che gli Stati Uniti possano tornare stabilmente alla ragione, ossia ad avere un ruolo costruttivo, senza il contributo di un’Europa capace di indicare la via. Sarà la storia, oltre la cronaca, a dire quanto hanno contribuito all’elezione di Trump gli Europei free riders dell’ordine mondiale; ma saremo noi i primi a pagare il prezzo del nostro immobilismo che da decenni ci mantiene impotenti.

4. La sfida ambientale: UNIRE L’EUROPA PER SALVARE IL PIANETA

In questo periodo è relativamente facile in Europa sottolineare l’urgenza della questione ambientale e porre il tema del ruolo che l’UE potrebbe giocare in tal senso. I rapporti sempre più drammatici che si susseguono, l’attenzione al problema riservata dai mezzi di informazione, la sensibilità sempre più diffusa stanno costruendo il consenso per lanciare un grande Green New Deal europeo e porre l’Unione europea alla testa della battaglia per combattere i cambiamenti climatici. E’ infatti una delle proposte indicate nelle priorità dell’agenda della nuova Commissione che inizia a circolare. Attorno alla difficile, ma necessaria, conversione verde dell’economia si può giocare una partita importante per coniugare l’utilizzo consapevole e responsabile delle nuove tecnologie legate allo sviluppo dell’Intelligenza artificiale e della rivoluzione in campo medico e biologico. Sotto questo aspetto l’Europa è leader a livello mondiale per la sua sensibilità al tema e per il suo impegno, anche grazie al fatto che in questo ambito gli strumenti comunitari – che si traducono nella definizione di indirizzi generali attraverso quadri normativi vincolanti per gli Stati membri e rendono possibili piani di sviluppo sulla scorta del piano Juncker, in grado di mobilitare capitali privati e incentivare investimenti con una garanzia pubblica europea minima – possono già fare molto per spingere nella giusta direzione l’economia europea.

Questa ambizione europea è importantissima, sia in sé, sia ai fini di creare la consapevolezza dell’urgenza che gli Europei assumano una leadership globale sul tema. Ma proprio perché si tratta di una sfida cruciale e complessa, gli strumenti della governance dell’UE non bastano ancora. I costi della trasformazione dell’economia sono molto elevati nel breve periodo; e man mano che si procederà nella realizzazione del piano ci sarà la necessità di ingenti politiche di compensazione per i settori e i territori che verranno penalizzati; compensazioni che richiedono una forte capacità politica e fondi da poter utilizzare, che l’UE non può avere, perché è dominata dalla difesa degli interessi nazionali da parte dei “signori dei Trattati”, e la cabina di regia europea non ha né il potere, né gli strumenti per perseguire autonomamente e senza i veti dei governi l’interesse comune sovranazionale. Questa realtà dei rapporti di potere tra Stati membri e istituzioni europee è alla base anche dell’approccio bottom-up che guida i piani di investimenti europei. Oggi la Commissione fissa delle linee quadro per indicare i settori e i tipi di progetti verso cui si vogliono stimolare gli investimenti, raccogliendo capitali privati in cambio di una piccola garanzia rappresentata dal contributo europeo; poi, però, i progetti vengono disegnati e avanzati dalle singole realtà sul territorio, che devono trovare gli investitori privati disposti a supportarlo. Il criterio indispensabile è dunque quello della reddittività “certa” a breve, per attirare capitali che sono (per definizione) alla ricerca di un ritorno sicuro. Non che questo approccio debba scomparire, ma è chiaro che penalizza le aree più depresse e i settori che garantiscono una resa minore dell’investimento in termini di profitto, al di là dell’utilità pubblica che potrebbero rivestire; inoltre, anche pensando alla necessità di andare oltre la scarsa crescita complessiva che stiamo sperimentando – una crescita che non basta all’Europa né per risolvere i suoi problemi interni né per mantenere un ruolo preminente sulla scena internazionale –, questo approccio dovrebbe affiancarsi ad un vasto piano pubblico, un piano di governo (in questo senso top-down) concepito per creare e rafforzare i beni pubblici europei che interessano meno agli investimenti privati ma che sono determinanti ai fini della produttività e della competitività del sistema europeo e servono a porre le basi e i paletti di uno sviluppo armonico, a partire dalle grandi infrastrutture materiali e immateriali. Per far questo occorrono risorse pubbliche, e un indirizzo chiaro di governo non solo economico, ma politico tout-court.

Infine, il punto ancora più importante, riguarda il fatto che il problema è mondiale, e per questo così complesso. Oggi la divergenza degli interessi dei singoli Paesi, alimentata dalla competizione economica, porta ciascuno Stato a perseguire i propri piani parziali – o a negare il problema come fa Trump, o come sta facendo il Brasile. Il MFE ha iniziato a porre al centro delle ragioni della sua battaglia, insieme alla pace, la questione ambientale sin dalla seconda metà degli anni Settanta, dopo il primo Rapporto del Club di Roma che denunciava il problema. La svolta del Congresso di Bari, Unire l’Europa per unire il mondo, è stata fatta anche per questo, oltre che per la necessità di perseguire obiettivi di eguaglianza, libertà e giustizia sociale a livello globale, insieme alla pace. Come la pace, l’emergenza climatica richiede la presa di coscienza di un destino comune dell’umanità, e ha bisogno di istituzioni politiche che sappiano perseguire l’interesse di tutto il pianeta e agire in questo senso. La rivoluzione federale europea porta con sé la prima affermazione storica di questo tipo di istituzioni sovranazionali; la mancata rivoluzione federale europea condanna il mondo a non riuscire a concepire questo modo di governare insieme, e a limitarsi alla cooperazione per cercare di allineare i contrastanti interessi a breve dei singoli Stati.

Pertanto, come serve un’Europa che dia l’esempio e che sia leader globale nelle politiche verdi, e che inizi a usare il suo peso commerciale ed economico per negoziare standard stringenti in materia di inquinamento, inclusa l’imposizione di una carbon tax su scala mondiale; così, altrettanto o forse più, serve, un’Europa che allo stesso tempo mostri al mondo la realtà di un processo che supera le singole sovranità nazionali per crearne una condivisa nei settori di interesse comune. Torna qui ancora l’esempio e il modello della CECA, che abbiamo già richiamato; è questo il modello per pensare un’Agenzia mondiale per il clima, che un’Europa federale potrebbe convincere il mondo a mettere in campo, con una parziale, ma reale, cessione di sovranità sufficiente per costruire un quadro solido in cui sviluppare la lotta globale ai cambiamenti climatici. Se Unire l‘Europa per unire il mondo continua ad essere il riferimento in termini di valore per definire il senso politico ultimo della nostra battaglia federalista in Europa, oggi dobbiamo sottolineare un passaggio che possiamo individuare in un mondo ancora troppo diviso e in cui le sovranità delle grandi potenze sono ancora troppo forti per pensare che possano volersi unire, anche di fronte all’esempio di un’Europa che fosse riuscita a compiere il passaggio federale. La rivoluzione federalista è la sola che potrà salvare il pianeta, e in tempi prevedibili l’Europa è la sola area al mondo dove può realizzarsi: per questo diventa vero e urgente evidenziare che una delle ragioni per unire l’Europa è l’esigenza di salvare il pianeta.

5. La sfida della competizione tecnologica

Il fattore tecnologico e il peso che si ha nella competizione in questo settore sono già oggi, e ancor più lo saranno nel futuro, determinanti ai fini dello sviluppo economico e sociale e della sicurezza. L’Europa, notoriamente, è in affanno su questo terreno, perché paga la sua divisione, la mancanza di campioni europei, impiega risorse insufficienti nella ricerca, le disperde nei bilanci nazionali e in progetti non sempre adeguatamente coordinati. La guerra tecnologica iniziata tra gli USA e la Cina e la prospettiva di una possibile (per quanto dannosissima) chiusura protezionistica in questo settore rendono indispensabile per l’Europa rafforzarsi in questo settore a accrescere il proprio peso a livello mondiale, per poter avere la forza di impedire una simile evoluzione e garantirsi dagli inevitabili ricatti cui sarebbe sottoposta se rimanesse dipendente (come di fatto è oggi) dalle tecnologie americane e ormai anche cinesi. Per questo è importante che tra le priorità della nuova Commissione compaiano oggi le proposte per creare un Fondo sovrano europeo per sostenere lo sviluppo di un settore tecnologico europeo e per rivedere i criteri della concorrenza nel Mercato interno per permettere la nascita di campioni europei. Sono proposte giuste e ambiziose, che vanno nella direzione corretta, ma che, come si è già detto per altri settori, saranno tanto più efficaci quanto più saranno frutto di una regia animata dalla visione politica sovranazionale e non saranno vittime degli attuali meccanismi di governance.

 

  


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